La poesia e la donna

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Fernanda

Un saluto.

Vorrei vedere il tuo mare, presso il Conero,

l’ansito, il respiro delle onde

travolgere gli sterpi del pensiero

dove parole usate si affaccendano

e le cose non hanno nome.

Dove vola il tempo

A quale mare?

E la prossima poesia sarà un sorriso

per te che oggi torno a salutare.

Fernanda aspettami ai cancelli

Inebriati di vento

Raccontami le tue parole…

 

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In un viaggio in Sicilia, acquistai un libro “Scrittrici d’Italia”, curato da Alma Forlani e Marta Savini, edito dalla Newton Compton, stampato nel settembre del 1991. Vi trovai un’antologia di moltissime autrici, a partire dalla poetessa toscana Computa Donzella, del XIII secolo, sino a Lina Galli, nata a Parenzo nel 1899. E trovai un’intensità poetica sconosciuta nelle parole di donne antiche e moderne.

Scoprii che lo stesso Giacomo Leopardi si era ispirato a varie voci del genio femminile dei secoli passati, ampiamente sottovalutato o trascurato da commentatori e critici. Porterò qualche esempio che possa illuminare in proposito, senza voler nulla togliere alla grandezza del poeta di Recanati, anzi riconoscendogli la saggezza di aver voluto e saputo attingere alla sorgente della poesia femminile.

 

 

Chiara Matraini nacque a Lucca nel 1514. Tra le altre sue opere, scrisse alcune poesie dedicate ad un giovane con cui ebbe una breve storia d’amore. Quel giovane sarebbe prematuramente morto. La poesia che segue e lo ricorda ha probabilmente ispirato “Il passero solitario” di Giacomo Leopardi.

 

Vago augelletto mio, caro e gentile,

che dolcemente canti e sfoghi il core

mercé sperando aver del tuo dolore

non lungi assai dal bel fiorito aprile,

 

ma io già mai col mio dolente stile

in cui piango e mi doglio, a più liete ore

giugner non spero, o ‘ntepidir l’ardore

ch’io sento, o m’oda la bell’alma umile.

 

 Tu la tua amata e dolce compagnia

troverai forse in aere, in ramo, o in terra,

io la mia dove o quando i’ non saprei.

 

Te la tua sente: ma chi dolce aprìa

mio core e speme, è spento, oggi, e sotterra,

né le mie voci ascolta o’ pianti miei.

 

 

Un’altra autrice che ha ispirato il genio di Recanati è  Isabella di Morra,  nata in Lucania e precisamente a Favale nel 1520. La sua famiglia era nobile e si trovò coinvolta nella contesa tra Francia e Spagna per il dominio delle terre del Sud. Pare che suo padre, il barone Gian Michele di Morra, stesse dalla parte dei francesi. Gli spagnoli prevalsero, e il barone si trovò costretto a emigrare in Francia e a rifugiarsi alla corte di Francesco I. Lo accompagnava un figlio di nome Scipione e di animo gentile.

Isabella era ancora bambina e si trovò lontana dal padre e vicina alla madre Luisa Brancaccio e a fratelli che si dimostrarono rozzi e violenti. La sua casa era un castello che si ergeva alto sulle rocce lambite dal vorticoso Sinni, vicino allo sbocco sul mar Ionio, in località Valsinni, dove oggi è stato istituito un Parco Letterario dedicato alla poetessa.

Pare che Isabella entrasse in corrispondenza con un poeta spagnolo, Diego Sandoval de Castro. I fratelli scoprirono la corrispondenza e pensarono a un intrigo amoroso e punirono Isabella con la morte. Era il 1546, e Isabella aveva 26 anni.

 

I fieri assalti di crudel Fortuna

scrivo, piangendo la mia verde etate,

me che ’n sì vili ed orride contrate

spendo il mio tempo senza lode alcuna.

 ……………..

  

Poscia ch’al bel desir troncate hai l’ale,

che nel mio cor sorgea, crudel Fortuna,

sì che d’ogni tuo ben vivo digiuna,

dirò con questo stil ruvido e frale

alcuna parte de l’interno male

causato sol da te fra questi dumi,

fra questi aspri costumi

di gente irrazional, priva d’ingegno,

ove senza sostegno

son costretta a menare il viver mio,

qui posta da ciascuno in cieco oblio.

……

 

Petronilla Paolini nacque a Tagliacozzo il 24 dicembre del 1663. La poetessa marsicana si lamentava in una poesia della sua maligna stella, identificata in Saturno.

I primieri vagiti / udì dalla mia cuna / con torvo aspetto empio Saturno e fiero; / e i primi pianti la crudel fortuna / serbò per semi del suo sdegno altero. Con turbini infiniti / scosse il tenero fior de’ miei verdi anni, / moltiplicando affanni, / maligna stella….”

Quando era bambina Petronilla perse il padre, ucciso da mano “per l’addietro amica”. Fu allora che Petronilla si trasferì con la madre a Roma, dove papa Clemente X la prese sotto la sua “protezione”. In realtà il papa, con una speciale dispensa, diede Petronilla in sposa quando era ancora bambina, e tuttavia erede di molte ricchezze, ad un suo parente e ufficiale di Castel Sant’Angelo, Francesco Massimi. Era il novembre del 1973: Petronilla aveva 10 anni e lo sposo ne aveva 38. Tra la nascita dello sposo e quella di Petronilla Saturno aveva compiuto una rivoluzione quasi completa intorno al Sole. Il loro matrimonio fu tormentato e il marito proibì a Petronilla persino di scrivere, finché la donna si ribellò e si ritirò in monastero, dedicandosi allo studio e alla poesia. Petronilla riscosse successo e fu accolta col nome di Fidalma Partenide nell’Accademia dell’Arcadia.

Scrivo per liberarmi, per essere. E per scrivere sono disposta a tutto. Per scrivere ho compiuto l’abominio peggiore, quello che persino le belve rifuggono.” L’abominio cui si riferisce Petronilla è quello dell’abbandono dei figli, che dovettero restare nella casa del padre.

Recentemente la giovane Michela Volante ha dedicato a Petronilla Paolini la tesi di laurea, un estratto della quale è stato pubblicato dal Centro Studi sulle Donne dell’Università di Torino, e un suo primo romanzo “Domani andrò sposa” per le edizioni Frassinelli.

 

 

Un’amica avvocatessa mi parlò di uno scienziato brasiliano, credo che fosse di Belo Horizonte, che scrisse a un suo collega di Rio de Janeiro sostenendo con tanto di dimostrazione matematica che la disintegrazione dell’atomo era impossibile. Pare che spedisse quella lettera proprio il 6 agosto del 1945, il giorno in cui cadde una bomba sul Giappone e l’atomo si scisse sulla città di Hiroshima. E allora, dopo il frantumarsi del cielo, lo scienziato corse a Rio e stette per giorni davanti alla casa del collega per intercettare la sua stessa lettera.

Una volta quello stesso scienziato volle dimostrare per via matematica l’esistenza di Dio. Quello che è nei numeri è forse anche nello spirito umano? Come si può definire, nella scienza dei numeri, il concetto di eterno o di infinito? Credo che l’unica strada consista nel passare dall’idea del nulla, cioè dello zero, numero noto agli indiani e considerato sacro, che fu importato in Europa attraverso gli arabi. E’ infatti noto che, se si divide un qualsiasi numero per un altro che si approssima allo zero, il risultato va all’infinito. Si dice pertanto che il limite di questa divisione (per il divisore che tende allo zero) è lo stesso infinito. Paradossalmente l’idea del limite si associa a quella dell’illimitato, forse perché non può esistere un assoluto senza un relativo nel quale la sua luce si dispieghi.

Insomma zero e infinito sono termini della stessa semplice operazione ed entrano in rapporto tra loro. Dall’idea del nulla si trascorre all’idea del tutto…  Questo si evince anche dal pensiero e dall’esperienza spirituale di almeno due mistiche italiane. Una è Veronica Giuliani, nata a Mercatello il 27 dicembre del 1660, col Sole nella zona dell’arco celeste. Si legge in un brano del suo Diario, datato 29 maggio 1697.

“- O felice niente il quale ci fa aprendere il tutto! – E quando la medesima anima si trova in questo fondo del niente, in un istante è solevata, è arichita, è adornata di tutte le felicità celesti…….

…….Mentre l’anima sta nel fondo del suo essere e va penetrando davero che non po’ niente, non è niente, il divino amore va e ruba la medema anima al niente e se la stringe a sé………

….Oh! che mutazione è questa! Mi trovo nel nulla ed in un subito mi trovo nel tutto che è Idio……. Viva il niente operante!...

Soggiungo e dico che, quando ho detto di quel niente operante, ho voluto dire di quando l’anima ha quella vera cognizione propria di non potere niente e di non essere niente. Questo io chiamo il niente operante: quando davvero si conosce che non si fa niente, non si po’ niente e niente siamo.”

 Un’altra mistica è Maria Cecilia Baij, nata a Montefiascone il 4 gennaio 1694.

Ecco un passo dei suoi diari:

Era lo sposo tutta luce, ed io tutta tenebre e miserabile. Ha mandato in un subito sopra di me i suoi splendori, che mi hanno riempita tutta del suo lume. Mi ha detto: - Alzati, amica vieni a me -. Mi sono alzata e mi sono appressata a lui; tirata dal suo lume, gli ho detto: - Signore, io che sono un nulla, come posso stare con voi ed unirmi a voi, che siete il tutto? – E lui mi diceva: - Io sono il tutto, e compiacendomi del tuo nulla ti ho unita al tutto, in modo che il nulla e il tutto sono un’istessa cosa per amore. Il tutto si è donato tutto al tuo nulla, perché il tuo nulla si è donato tutto al mio tutto -. Io ritrovandomi allora tutta unita e trasformata in lui, gli ho detto che si degnasse di tirare e unire a sé tutte l’altre creature ed unisse il loro nulla al tutto. E lui mi ha detto: - Se non conoscono il loro nulla, non possono unirsi al tutto -:

Un simile concetto è espresso da Gandhi nella sua ricerca della Verità:

Tutto quello che in vera umiltà posso rivelarvi è che nessuno trova la Verità se non possiede un grande senso di umiltà. Se volete nuotare nel grembo dell’oceano della Verità, dovete ridurvi a zero.” Lo stesso Gandhi sviluppa poi l’equazione per cui “La Verità è Dio

Pare esserci una stretta relazione tra l’idea di verità e quella d’infinito o di eterno, comunque lo si consideri, e questo vale per un credente come per un ateo o un “diversamente credente”. Il principio d’indeterminazione di Heisenberg dice che, se vogliamo misurare l’energia di una particella, possiamo farlo senza errore solo in relazione ad un lasso di tempo infinito, mentre  è virtualmente infinito l’errore se pretendiamo di sapere l’energia della particella in un dato e preciso istante. Il principio d’indeterminazione applicato al mondo umano direbbe che, in un lasso di tempo breve, quale quello di una vita umana o di un epoca storica, c’è una certa indeterminazione che inibisce la conoscenza di tutta la verità e rende inevitabile una quota di errore. La verità riposa in grembo all’eterno, mentre quanto più un lasso di tempo è limitato, tanto maggiore e è l’inevitabile errore che allontana dalla verità. Per questo la limitatezza della vita umana conduce fatalmente ad una quota di errore. Per tornare alle parole di Gandhi: “non possiamo, attraverso questo corpo effimero, vedere faccia a faccia la Verità che è eterna”.

Potrebbe essere un rimedio sintonizzarsi su un tempo eterno, comunque lo si voglia intendere, in senso laico o religioso, ma per far questo, dicono i pensatori, bisogna avere il massimo di umiltà e quindi riconoscere di non sapere o di non essere nulla. Chi invece ritiene che un dio sia con lui, crederà di avere in tasca la verità e questo potrebbe essere pericoloso per lui o per gli altri.

Ne consegue un altro corollario: credersi fisicamente immortali potrebbe significare non riconoscere la realtà che sta attorno e pensare di essere circondati dal nulla. Mario Tobino, medico psichiatra e scrittore, nel suo “Per le antiche scale” raccontava di un Federale, rappresentante dell’allora Duce Benito Mussolini, che fu ricoverato in manicomio perché aveva negato la stessa esistenza del Duce. In termini psichiatrici si trattava di un “delirio sistematizzato di negazione”. Al tempo stesso il Federale si riteneva immortale e pensava di dover attraversare i secoli.

Se ne deduce che la percezione che ognuno ha di se stesso è in rapporto inverso alla percezione che si ha del mondo circostante. Più la concezione del proprio sé è piena, più si svuota l’idea del mondo circostante e la stessa idea del divino che anima le cose. Se attorno a sé c’è il vuoto anche l’amore non ha nessun senso e il sé viene assunto come entità assoluta o eterna.

 

 

Mi ritrovai in un borgo antico, dove castelli franavano all’ombra. Ogni tanto gli spiriti dell’aria galattica approdavano là. Rovistavano in quei luoghi, in quelle ombre. Un paesaggio irreale di monti si disegnava all’orizzonte. Allungavi la mano e toccavi quei monti, le cime appuntite di alberi aerei, le pareti segnate dalle rughe del tempo. Se la notte restavi là, potevi toccare con mano la luna. Ti stendevi ed eri sprofondato in un sogno d’erba. Qualcuno mi disse: “non può aspirare al cielo chi non conosce gli abissi della terra.”

Sui monti del Nord cercavo la persona e l’anima di Antonia Pozzi. E forse mi guidava la sua poesia “Vorrei che la mia poesia ti fosse un ponte – sottile e saldo – sulle oscure voragini della terra”. Una notte la incontrai. Sul vecchio borgo splendeva una falce di luna. Eravamo alle pendici di monti vertiginosi e salimmo verso la campagna alta. Attorno a noi si perdevano gli abissi dove l’aria accarezzava le viscere della terra. Ci sentivamo leggeri. Parlammo dei suoi versi e delle sue parole.

Poesia, mi confesso con te che sei la mia voce profonda…”

“- Poesia che ti doni soltanto a chi con occhi di pianto si cerca -”